Teacher Sara racconta il suo personale e professionale dalla passione per le lingue alla didattica del bilinguismo …passando per i subrik della nonna. Un racconto di viaggio (da Alba a Bath, da Berlino all’Irlanda) e di esperienze che portano a crescere umanamente e professionalmente.
Alcune pillole:
Il mio unico bilinguismo, dunque, era italiano/piemontese… dialetto che già gli ambienti culturali avevano rilegato alle bocciofila e alle piazze del mercato e che serviva da spartiacque. Prima lezione di sociolinguistica: nei cortili anni 80 chi parla piemontese è il cugino che viene dalla campagna, quello che di solito ha ancora i vestiti che sanno di stalla e la notte sogna i giocattoli che tu invece già metti in un angolo della cameretta come vecchi…
…Passo i pomeriggi preadolescenziali a casa di un’amica argentina dove si parla esclusivamente spagnolo e mi affascina la capacità della mia amica di allora di passare da una lingua all’altra…
…viaggio studio a Bath, Inghilterra. Prima volta in aereo, prima volta che dovrò veramente usare frasi studiate sui libri, “Can I have a ticket please? Thank you”. Conosco gente da tutto il mondo.
…La nostra generazione ha cominciato a viaggiare, chi più chi meno, ad avere possibilità culturali al di fuori dell’albese e dei confini nazionali e come sempre accade, la cultura genera cultura…
…Scopro molto presto proprio con i miei figli come lingua e ruolo materno siano un intreccio indissolubile. La madre ha un potere immenso sui figli, un potere fatto di sguardi, tocchi prima ancora delle parole che altro non sono, in qualsiasi lingua siano pronunciate, che l’espressione orale di cose già molto ben delineate nel mondo emotivo/cerebrale del bambino…
Il testo completo di teacher Sara:
Il nostro percorso di bilinguismo è stato tutta una questione di tempi azzeccati o mancati… a caso!
Come in ogni avventura della vita d’altronde: se ci si fossilizza sui se e sui ma si rischia di piangere ciò che non si ha senza godere della freschezza di cosa si sta vivendo e dei propri risultati. Meglio un qui e ora ben saldo e perseguito con la consapevolezza che gli intrecci del dove e quando della vita sono tanto casuali quanto utili al nostro crescere umano.
E infatti mi ritrovo a riflettere sul mio percorso linguistico prima di quello dei miei figli che ho avuto l’onore di iniziare, ma sta pian piano prendendo vita propria com’è giusto che sia.
Io, mamma Sara, nasco nel 1980, nel pieno della rivoluzione Mediaset, cresco col sottofondo dei telefilm americani che mostrano a noi italiani, da poco avvezzi al benessere, un mondo fatto di eccessi… un po’ megalomane commenteremo anni dopo, ma robe da WOW per noi ragazzini che ancora avevamo la fortuna di giocare per strada con le toppe alle ginocchia. Barbie aveva nomi tipo “Hollywood” e aveva già avviato da un decennio la sua mission contro l’accademia della Crusca: era “trendy” o “cool”, perché carina cominciava già a sapere di provinciale. Da buona ribelle comunque io della Barbie me ne fottevo, non sopportavo i tacchi nemmeno ai piedi di plastica di un’altra… preferivo il Lego o i cartoni animati giapponesi e potevo ancora vantare pomeriggi in bicicletta liberi da scuola, estati in collina, autunni in vendemmia e inverni innevati a dovere… tutta roba che aveva radici ben piantate nella tradizione non italiana, proprio proprio piemontese e nello specifico albese, dato che si perde nel tempo il ricordo di antenati non della zona.
Il mio unico bilinguismo, dunque, era italiano/piemontese… dialetto che già gli ambienti culturali avevano rilegato alle bocciofila e alle piazze del mercato e che serviva da spartiacque. Prima lezione di sociolinguistica: nei cortili anni 80 chi parla piemontese è il cugino che viene dalla campagna, quello che di solito ha ancora i vestiti che sanno di stalla e la notte sogna i giocattoli che tu invece già metti in un angolo della cameretta come vecchi.
Passo i pomeriggi preadolescenziali a casa di un’amica argentina dove si parla esclusivamente spagnolo e mi affascina la capacità della mia amica di allora di passare da una lingua all’altra, ma intanto ci rintaniamo a ballare e tradurre le canzoni dei Take That col nostro inglese alle prime armi, iniziato solo in prima media sui banchi di scuola coi fumetti di un topo di nome Mike che sapeva anche troppo di roba infantile, per noi che ci si stava facendo grandi. Non mi torna perché se si dice “isn’t” nelle canzoni ti trovi “ain’t” e quando ascolto le interviste cerco di escludere il traduttore anticipando la comprensione diretta o addirittura il labiale… non ce la farò mai: parlano troppo veloce quei Fab5 costruiti a tavolino per acchiappare la mente di noi ragazzine. Ma non demordo: riempio quaderni di traduzioni, rivolto i testi da cima a fondo facendo recensioni cattivissime sulle traduzioni pubblicate dal Sorrisi e Canzoni che mia madre legge sotto l’ombrellone.
Mac Gyver intanto mi fa conoscere un po’ di storia del secolo, quella storia che a scuola non studieremo mai perché dopo la seconda guerra mondiale l’uomo è stato più impegnato a far nulla o meglio, a cercare di arginare gli effetti collaterali di una scolarizzazione di massa. Invece, a pochi passi da noi c’è un gran casino di stati non stati che stan cercando di emanciparsi dalla grande madre Russia e ai TG parlano dei tanti albanesi e croati e rumeni e bulgari che scappano da noi cercando “lamerica”. Come nella catena alimentare loro guardano la nostra TV e scappano per venire da noi, noi guardiamo la TV americana e cerchiamo di scappare da loro … io resto e cresco, con qualche breve incursione nel francese nei weekend estivi a Menton appena oltre frontiera, poi arriva anche la mia occasione: viaggio studio a Bath, Inghilterra. Prima volta in aereo, prima volta che dovrò veramente usare frasi studiate sui libri, “Can I have a ticket please? Thank you”. Conosco gente da tutto il mondo, pattino con un bulgaro e vado per la prima volta a mangiare al Mac Donald con un tedesco, ma rimango rapita dal fascino esotico di un ragazzo sudafricano chiedendomi per quale strana ragione sia bianco… le prime cotte ai tempi del non-google erano davvero tutta una scoperta!
Torno con una gran determinazione, sono già iscritta all’istituto magistrale linguistico, ma adesso so che è proprio la mia strada… Babele mi affascina immensamente e comincio a filosofeggiare cercando nella mia provincialissima Alba occasioni di multilinguismo, all’epoca molto rare. Alba era una cittadina che godeva della sua centralità rispetto a tutti i paeselli circostanti, non si metteva in gioco perché era lei a fare i giochi sul territorio. Fino ad allora… poi qualcosa ha cominciato a cambiare.
La nostra generazione ha cominciato a viaggiare, chi più chi meno, ad avere possibilità culturali al di fuori dell’albese e dei confini nazionali e come sempre accade, la cultura genera cultura. Ma allora per le vie della città si sentiva ancora solo esclusivamente l’italiano e il piemontese. L’inglese lo studiavi a scuola, il francese e il tedesco li sentivi in vacanza in Liguria in campeggio. Stop. E no… io mi fidanzo con uno svizzero: bello, alto, biondo, occhi azzurri e capace di farmi imparare il programma del triennio in un mese, tanto durò quella cotta forse proprio solo dovuta al fascino del bilinguismo che anche lui padroneggiava perfettamente tra italiano e tedesco. Scopro presto che, a discapito delle mie tendenze linguistiche, la mia pancia ha sete di Mediterraneo, quello verace.
La prima storia seria arriva con un figlio di napoletani migrati nelle terre del nord: la cadenza mi entra dentro insieme a tutto il suo vocabolario schietto di strada, i pomeriggi si fanno neomelodici, le litigate piene di cazzimm e quando scoppia, dopo quattro anni durante i quali il liceo è finito e ho iniziato a studiare da interprete, io sono tutta un misto di dialetti e vocabolari di quattro lingue che mi si avvinghiano in testa litigandosi i miei vari campi d’esperienza. Viaggio, studio, lavoro, vivo Londra nella sua versione di inizio millennio, con l’irrefrenabile voglia che hanno i ventenni di conquistarsi un posto nel mondo. Io cerco più che altro di rendermi invisibile nella folla, raggiungo l’apice mischiandomi al londinese medio attraversando Oxford Street con una tazza Starbucks in mano.
I ritorni italiani assomigliano alle riemersioni durante lo snorkeling… controlli che tutto sia ancora lì, prendi ossigeno e ti rimmergi perché il sommerso è più affascinante. Londra mi rende indipendente, torno di una sostanza non etichettabile come figlia e decido di ripartire appena conclusi gli esami. Fatico a raggiungere il momento della partenza, studio qua e là girovagando i Balcani e aggregandomi a compagnie girovaghe scendendo a patti col raggio chilometrico percorribile nei week end.
Poi si va: destinazione Berlino… sale un compagno di viaggio che diventerà compagno di vita e affrontiamo la via del nord. Freddo, niente soldi, cittadini europei presto messi di fronte alle tante contraddizioni di un’Europa unita sulla carta ma non nel pratico. Lavori saltuari, compaesani che ti sfruttano, venti gradi sotto zero e bus da aspettare, storie ancora fresche di un muro che divideva Berlino est da Berlino ovest, lavoro con dei bambini bilingui per supportarli con l’italiano come seconda lingua, spiragli di luce, indecisione poi decisione. Torniamo, l’Italia ci attende con contratti di lavoro e possibilità di creare qualcosa di nostro. Ma si, torniamo. Torniamo al nostro Piemonte, torniamo a girovagare nei week end portando la musica folk con gli amici, cantando Me Pare a Vendù l’asu. Mi riprendo le mie origini, dopo aver approfondito la storia dei tedeschi, ripercorro i sentieri di chi quei tedeschi li ha temuti nelle notti di resistenza sulle nostre colline, mi lascio riprendere dal fascino dei racconti dei nonni in cascina. Mi sposi? Ti sposo… ma andiamo a Cuba. Va bene, da La Havana a Santiago in auto, io te e la storia del Che.
Nuvole che passano veloci, ritorni. Lavoro lunedì-venerdì, otto-diciotto, mutuo, bollette, pulizie, zaini in soffitta. Ci sono le trasferte lavorative: Atene innevata, Tokyo by night, la Parigi della moda e la Dussendorf del vino. Le lingue risuonano, tra un telefono e un PC, tutte insieme, tutti i giorni: l’ufficio vendite ha un suo fascino multilingue che soddisfa… o che ti fai bastare perché ti fan credere che la giovinezza sia finita lì: schiantata contro il tempo indeterminato.
Niente, io sono sempre io: prenoto un biglietto per l’Irlanda dove mio marito è in trasferta lavorativa, giro Dublino cercando l’animo di chi ha tradotto in parole il flusso di coscienza. Hotel Fitzgerald, stanza 123, primo piano. C’è qualcosa nelle nuvole irlandesi che corrono mentre le guardo dall’aereo di ritorno… non sto viaggiando da sola: sono incinta. L’ho saputo subito. Matteo ha sangue irlandese, misto al piemontese sporcato dai viaggi della mia teste ribelle e al ferrarese comunista di suo padre che dai viaggi non ha ancora imparato che fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.
Il bilinguismo di mio figlio nasce lì, dal concepimento. Febbraio 2009: lui è tra noi, piccolo ranocchietto. Io sono troppo presa dall’imparare a fare la mamma per pensare di parlare un’altra lingua in casa. Ora imparo il bambinese, mi godo la maternità e tutto quello che porta con sé, i viaggi diventano parentesi di mare o montagna per rilassarsi. Qualche canzoncina niente di più. Poi esco dal torpore materno, prendo il ritmo e torno a essere me, una nuova me: quella di prima più quella di adesso, è il bello di crescere.
Comincio ad approfondire quello che avevo preso in mano a Berlino per lavorare coi bimbi bilingue, cerco canzoni, cartoni animati, gioco con Matteo in inglese al suo gioco preferito, il Duplo. Sono di nuovo incinta: arriva Anna nel 2012. Il bilinguismo in famiglia acquista una nuova dimensione: quando papà è al lavoro mamma parla inglese. Si gioca molto, si canticchia stile Mary Poppins tutto il giorno e le prime paroline arrivano. Happy happy, mummy, look, ducks, it’s fun… al parco del paese suono come un’aliena (tanto più che porto mia figlia in fascia anticipando il trend consumistico di almeno un paio d’anni) e il grosso della popolazione materna decide che sono probabilmente troppo esaltata per prendere parte ad una conversazione standard da panchina del parco. Dal canto mio quando posso esprimo brevi considerazioni sull’ultimo omogeneizzato o il modello del passeggino ma per lo più mi auto-escludo a priori perché di unghie e tacchi non so proprio che cazzo dire. Torno a viaggiare, alla ricerca di parchetti isolati, tranquilli, lontani dall’esaltazione del maternage all’italiana.
Nel frattempo ho voluto approfondire il materno con un percorso che mi ha fatto diventare educatrice perinatale e ogni scambio di battute in occasioni come quelle del parchetto mi mette in luce la troppa mancanza di consapevolezza delle donne del nostro secolo. O taccio o creo un setting adatto ad esprimere certe cose, al fianco delle madri… comincio a credere al progetto del bilinguismo come alternativa lavorativa.
Scopro molto presto proprio con i miei figli come lingua e ruolo materno siano un intreccio indissolubile. La madre ha un potere immenso sui figli, un potere fatto di sguardi, tocchi prima ancora delle parole che altro non sono, in qualsiasi lingua siano pronunciate, che l’espressione orale di cose già molto ben delineate nel mondo emotivo/cerebrale del bambino. Riprendo a studiare neurolinguistica e studio come applicare la metodologia imparata come educatrice perinatale ai playgroups rivolti ai genitori che vogliano intraprendere un percorso di bilinguismo coi propri figli. Inizio a fare letture animate, playgroups, laboratori.
A casa è tutto uno switchare tra italiano e inglese… poi arriva la malattia a spezzare i ritmi. Dopo sei mesi di medici, ospedali, esami, a Matteo viene diagnosticata l’AIG, una malattia autoimmune che colpisce le articolazioni. Altro motivo per non pensare troppo ai risultati: non sai mai cosa la vita ti riservi per l’indomani… pensa al domani ma gioisci dell’oggi. Non mi preoccupo di quali risultati il percorso porti di per sé, gioisco per ogni nuova parola o frase dei miei figli in inglese come in italiano. Passo dopo passo, ieri, oggi e domani, senza traguardi prefissati, senza obiettivi, senza aspettative… così come la vita suggerisce. Basta che sia vita.
Poi inizio ad avere più richieste, i gruppi aumentano e BAM! Sbatto il naso contro le aspettative, non mie ma dei genitori che si rivolgono a me come professionista. Io non ho idea di come percepiranno, parleranno, useranno l’inglese i miei figli da grandi, ma so che quello che sto facendo con loro è importante e resterà indelebile nella loro memoria… in generale però la prima domanda che mi viene rivolta è: “quante parole sanno? Quante parole imparano? In quanto tempo parlerà inglese?”.
Nessuno lo sa, nessuno può scrivere un manuale su come programmare un bambino bilingue, e spero che mai nessuno arrivi a farlo perché sarebbe l’inizio della fine del linguaggio dell’amore. È tanto semplice quanto complicato, è uno dei tanti passaggi che un genitore si costruisce da sé, uguale e diverso da tutti gli altri, ma solo suo e del suo bambino. Figli diversi, esigenze e risultati diversi. In tutto, dal parto, ai giochi, dal latte alla seconda lingua. Matteo adora leggere, Anna giocare a carte, Matteo adora i Duplo e i Lego, Anna adora fare acrobazie: ti adatti, tracci un solco del percorso che vuoi fare e poi tra un compromesso e l’altro cerchi di rispettarlo e di raggiungere il tuo traguardo, solo per poi imparare che un traguardo non c’è perché, come per la crescita di un figlio, la crescita linguistica non ha traguardo preciso, c’è sempre del nuovo da imparare e i bambini crescono e le esigenze cambiano. Una sfida quotidiana, che va presa come l’educazione: è una cosa seria, che ha bisogno di coerenza e costanza, ma anche di flessibilità e resilienza.
Oggi Matteo ha 10 anni, Anna ne ha 7. La mia attività (www.playwithmom.it) è avviata e conta una quindicina di gruppi di bimbi dai 2 ai 14 anni e un contratto fisso in un asilo: alterniamo periodi in cui l’inglese torna costante (di solito sulla spinta di un viaggio, di qualche nuova conoscenza nelle nostre vite), a periodi in cui siamo troppo indaffarati dalle nuove sfide della vita per dedicarci più tempo.
Ma io non demordo: parlo in inglese qua e là e porto in casa sempre nuovi stimoli, osservo cosa piace ai miei figli e cerco proposte in lingua. Se proprio devo rispondere a chi mi chiede quali siano i risultati posso dire che Matteo e Anna sono in grado di comprendere e intrattenere una conversazione quotidiana, leggere storie e libri per bambini della loro età comprendendone le trame e quando andiamo in Irlanda una volta all’anno (con i programmi di Families and IReland) sono in grado di interagire con gruppi di coetanei. Sono bilingui? Si, sono esposti quotidianamente alle due lingue.
Sono bilingui nativi? No, non hanno un’esposizione a 360 gradi e sono poco esposti a conversazioni che vadano oltre quanto li riguardi o quanto stiano svolgendo per giocare o leggere, pertanto grammatica e fluency hanno ancora bisogno di parecchi step linguistici, ma hanno 10 e 7 anni e la vita darà loro decisamente più occasioni di quanto possa fare io sforzando la mano laddove loro non ricerchino di spontanea volontà. Al momento Anna è in una fase di stallo sul parlato, forse perché è attratta dalla lettura in cui si cimenta volentieri e che sto supportando con libri graduati ed esercizi/gioco di fonetica, Matteo adora ascoltare musica e si diletta a storpiarne i testi sia in italiano come in inglese, con una capacità di comprensione e di inventiva in lingua non indifferente. Sta prendendo consapevolezza del proprio bilinguismo e in Irlanda un giorno mi ha confidato che dopo qualche ora al camp che frequentava non si rendeva più conto che fosse tutto in inglese: questi sono i risultati che ti fan squillare le trombe del vincitore, proprio in quei periodi in cui ti chiedi se tutta la fatica abbia avuto senso visto che sfoderano l’inglese solo per compiacerti con frasi quotidiane del tipo “Can I play with my videogame?” o, meglio ancora…. “muuuuuuuuuuummy! Can you clean my bottom, please?”.
La nostra città nel frattempo ha cambiato completamente volto, gli stranieri arrivano in massa a visitare la capitale delle Langhe, patrimonio dell’Unesco, i contadini che sapevano di stalla gestiscono aziende vinicole miliardarie, i ristoranti espongono menù da stelle Michelin e in via Maestra senti più inglese e tedesco che italiano (del piemontese qualche rara voce tra vecchietti al bar purtroppo), ci sono due asili bilingui ed è stata aperta una scuola elementare e media bilingue e … insomma: si respira aria e cultura internazionale.
Mi rallegro ovviamente delle opportunità di cui godono anche i miei figli: anche se non possiamo permetterci le scuole private un territorio che si apre culturalmente genera cultura in maniera intrinseca… ma non posso fare a meno di pensare se non fosse meglio quando andava peggio, quando potevi scendere a giocare con le toppe alle ginocchia. Perché alla fine la vita le opportunità te le porta da sé se le sai cogliere, mentre la libertà di sbucciarti lo stesso ginocchio per te volte di fila cercando di spuntare la collinetta con la bici Graziella … quella difficilmente te la ridaranno al tempo di Google e YouTube.
Io, oggi quarantenne con alle spalle un’infanzia monolingue, mi ritrovo comunque oggi a vedere su di me gli effetti di quanto raccontato all’inizio di questa riflessione estiva: il mio cervello ha incamerato tutto nel percorso della vita e il mio zaino linguistico non s’è perso nulla… sento lo spagnolo e mi si riaccendono i pomeriggi preadolescenziali, sento il tedesco e torno alle strade di Berlino, sento il napoletano e torno ai pomeriggi neomelodici: ogni lingua ha gusti e profumi di ricordi ben precisi ed è lì, pronta ad essere parlata e riutilizzata per fare nuove esperienze e creare nuovi ricordi. Poi c’è l’inglese, che quotidianamente mi porta al gioco, al canto, al ballo freschi di infanzia e il piemontese che con radici ben piantate è stata la mia prima seconda lingua, quella della nonna che mi preparava i subrik nelle sere d’inverno.
In fin dei conti è nel qui ed ora con consapevolezza che bisogna saper stare per gioire con i nostri figli: qui e ora, i ricordi arriveranno e saranno tesori inestimabili.